L’Ordinamento del cielo e della terra

Esposizione di Richard Lang

LA MIA IDENTITÀ PERSONALE




Lo sguardo verso l’interno

Ciò che sono dipende dalla distanza fra me e il mio osservatore.


Per uno che mi guarda da una distanza di qualche metro, sono un essere umano.








A questa distanza, sono uno fra i circa sette miliardi che vivono sul terra. Fui concepito in grembo a mia madre, dove la mia evoluzione da ovocita fecondato a embrione a forma di pesciolino, poi a embrione a forma di rettile per giungere al feto umano è il riepilogo della l’evoluzione della Vita. Da bebè imparai le arti e i mestieri di essere umano; imparai a sorridere, a gattonare, a camminare e a parlare. Da adulto il mio sviluppo continua con l’assunzione delle mie responsabilità. Se arriverò alla vecchiaia, andrò in pensione, una specie di “seconda gioventù” con la resa parziale dei doveri e dei poteri, seguita da una “seconda infanzia”, e infine dalla tomba.

Lo sguardo verso l’esterno

Cosa sono dal mio punto di vista? Al centro, non sono una persona. Sono il Vuoto consapevole, ossia sono Capacità. (Per averne una dimostrazione, clicca su Esperimenti e prova a fare gli esercizi proposti.)

Ma Capacità per cosa?







Guardando verso l’esterno, sono Capacità per il mio corpo (senza testa)…














...per la mia faccia allo specchio...
















...e per gli altri.

















A questa distanza, sto guardando nella mia sfera umana.






Scambiare le facce








 Quando incontro un’amica vedo la sua faccia qui nella mia non-faccia, ossia vedo la sua apparenza umana qui nel mio centro vuoto (non umano)…














...e lei vede la mia faccia umana al suo centro vuoto (non umano). Scambiamo le facce. Io ho la sua e lei ha la mia.



Io sono lei e lei è me.











Proviamo a spiegarlo in un altro modo: in questo diagramma il cerchio superiore rappresenta la mia amica, quello inferiore rappresenta me stesso. La figura bianca è ciò che io appaio a qualche metro di distanza. Il mio aspetto umano non è centrale rispetto a me ma si manifesta là al centro del cerchio della mia amica. In altre parole nello spazio vuoto del suo centro lei trova la mia faccia, mentre nel mio centro, qui, nello spazio vuoto che sono io (figura nera), trovo la sua faccia. Io sono Capacità per lei, e lei è Capacità per me: ci scambiamo le apparenze.



Il rispecchiarsi e la coscienza di sé (autocoscienza)

Non solo vedo la faccia della mia amica qui nel mio centro vuoto, ma gliela racconto; com’è fatta e dove si trova. Gliela rispecchio. Accettando quello che dico, la mia amica si vede (s’immagina) come la vedo io; accetta, cioè, di essere là dove è la sua faccia, anche se lei non la vede . In questo modo diventa autocosciente. Nello stesso modo, la mia amica, non solo mi racconta della mia faccia, mi dice anche dove si trova. Me la rispecchia. Io, quindi, mi vedo (m’immagino) come lei mi vede, accettando cioè che la mia faccia sia qui, anche se non la vedo qui, e anche se la mia amica, avvicinandosi, trovasse la mia faccia sostituita da tante altre cose (cellule, molecole e così via) e, alla fine, dal Nulla. Se poi lei fosse in grado di girarsi e di guardare dal mio Nulla insieme a me, scoprirebbe che io sono un recipiente vuoto che serve a contenere ciò che chiamo la sua faccia. Ognuno di noi contiene l’altro, e nessuno è unicamente qui o là.

Il sé e la società

Divento umano perché, essendo Capacità per la società umana, accetto come quella società mi vede. Imparo che sono una persona solo in compagnia di altre persone, diventandone consapevole tramite loro. La mia vita è la vita che gli altri vivono tramite me (dato che io sono Capacità per loro) e che io vivo tramite gli altri (dato che loro sono Capacità per me). Allora gli altri riflettono ciò che vedono di me, e io, accettando il loro punto di vista, divento autocosciente. Il sé e la società sono indivisibili e interdipendenti.

Le tre fasi della vita

Non sono sempre stato consapevole di essere Capacità per gli altri; prima ero solito vedere me stesso solo come gli altri vedevano me, come una persona faccia a faccia con gli altri e separata da loro. Tuttavia, nemmeno questa era la mia visione originale di me stesso – questa auto-coscienza, questa visione esterna di me è stata una visione acquisita. Questo stadio non è necessariamente l’ultimo stadio di sviluppo. Potenzialmente ci sono tre fasi principali. Nella prima ti vedi solo dal tuo punto di vista (il tuo sguardo verso l’esterno); nella seconda ti vedi solo dal punto di vista degli altri (lo sguardo verso l’interno); e alla fine, nella terza fase, accade l’integrazione delle due visioni. Le tre fasi corrispondono al bebè, all’adulto e a “Colui che Vede”. (Descriverò anche l’importante fase di transizione del bambino).

Prima fase: il bebè (lo sguardo verso l’esterno)

Senza testa, non sono ancora consapevole della mia apparenza agli occhi degli altri, né di essere sotto il loro sguardo. Non so ancora di essere una cosa, un “bebè”, e non ho idea che “io” sono nato o che “io” morirò. Sono Capacità per il mondo; con il mio Occhio Singolo sono ovunque ed eterno, senza mai pensarmi in questi (o qualsiasi altri) termini. Sono ancora senza linguaggio. Il mondo per cui sono Capacità include il corpo (che senza testa non è ancora “mio”), le sensazioni, i suoni, il cibo, le persone, gli animali, le piante… Non ho ancora imparato dove finisco io e comincia il resto del mondo, e non concepisco “ieri” e “domani” e “altrove”. Pure, la mia idea dell’esistenza di “altre persone” è ancora rudimentale. Quando mi guardo allo specchio, riesco a vedere un “bebè”, senza pensare che sono io. Sono Capacità per quella faccia esattamente come lo sono per le altre facce, per il cinguettio degli uccelli, per la sensazione del vento, per il sapore del latte; senza identificarmi con nulla.

Il bambino (fase di transizione)

Fin dal primo giorno, le persone che mi stanno intorno mi dicono chi sono, rispecchiandomi quello che vedono: “Ma che bel bambino!” Ovviamente all’inizio non capisco le loro parole, e in ogni modo, non sono adeguate. Io non sono un bambino; sono Capacità per il mondo. Non accetto ancora la loro immagine di me.

Più imparo a esprimermi con le parole, più mi vedo con gli occhi altrui. Nella mia immaginazione, faccio un viaggio di qualche metro, e, girandomi, mi guardo dal loro punto di vista, “vedendomi” per la prima volta con una testa sulle spalle. A poco a poco imparo che il bebè allo specchio sono io, e che lui è (con qualche aggiustamento) quello che vedono gli altri quando guardano nella mia direzione. Benché io sia, dal mio punto di vista, senza testa, esteso, ovunque, nessuno al mondo conferma la mia esperienza privata. Anzi, se ne parlo, ridono di me. Quindi comincio a screditare l’idea vasta che ho di me stesso. Impongo qui sulla mia non-faccia centrale la faccia che vedo allo specchio, la faccia che gli altri mi dicono essere qui, anche se io non l’ho mai vista effettivamente qui. In compagnia degli altri mi vedo (m’immagino) “faccia a faccia” con loro; la mia faccia immaginata qui che affronta le loro facce percepite là. Sto imparando a fare un gioco, il Gioco delle Facce, anche se non sono consapevole che sia un gioco. La sua regola principale consiste nel far finta di avere una faccia quando non la si ha, accettandola talmente così pienamente da finire per crederci davvero.

La mia capacità crescente di vedermi come mi vedono gli altri mi distingue dagli animali che, a differenza degli esseri umani, non diventano autocoscienti. I gatti non passano le ore a immaginare come gli altri gatti li percepiscono, neppure ad ammirarsi o denigrarsi. (Clicca qui per vedere un video breve della BBC sullo sviluppo dell’autocoscienza.)

Perché faccio questo cambiamento di prospettiva? Adesso che, come bambino, sono in grado di fare fisicamente più cose e comunicare meglio attraverso il linguaggio, voglio partecipare alle attività che si svolgono attorno a me, unirmi agli altri e beneficiare del fatto che sono un essere umano, essere un membro attivo della società. La condizione di base che devo soddisfare per poter partecipare è sapere chi sono io dal punto di vista altrui, assumendo le responsabilità di quella persona. Quindi comincio ad accettare che sono una cosa separata da tutte le altre cose. Che scelta ho? Non mi si offre nessuna alternativa. Per di più, respingere la persona allo specchio e il modo in cui gli altri mi vedono, sicuramente significherebbe una vita profondamente isolata e priva di senso.

Anche se accetto qui quello che sono per gli altri , da bambino la mia autocoscienza è ancora frammentaria. Dato che la mia immagine del sé non si è ancora ben radicata nella mente, mi dimentico spesso della mia apparenza, e durante quelle ore in cui sono ancora beatamente inconsapevole della mia immagine, come mi è vivido e brillante il mondo! Guardo un fiore senza che s’intrometta il concetto di “faccia,” senza il sé che sembri separarmi dai petali, dal profumo, dalla trama di quel fiore. Vedo il fiore, non me stesso nell’atto di vedere il fiore. Anzi, sono il fiore, anche se non lo esprimo mai in quei termini. Quando gioco, con altri bambini o da solo, presto totale attenzione a ciò che sto facendo perché la metà della mia attenzione non è ancora occupata dalla mia apparenza. Quest’attenzione indivisa mi dà molta energia. Non pensando ancora al giudizio altrui, sono originale e inventivo nel giocare, spensierato e spontaneo; dalla non-mente, l’ispirazione fluisce senza sforzo. Senza il concetto di essere dentro un contenitore umano, sono libero di essere qualunque cosa: un momento sono un uccello, quello successivo un leone e un treno. Ma poi arrivano mamma e papà a dirmi come mi devo comportare: “Non sei un uccello, sei un bambino!” Improvvisamente mi fanno ricordare un’altra volta ancora il loro punto di vista rispetto a me. Ma poi (ed è così frustrante per loro!) come prima, all’improvviso, me lo dimentico e ritorno ad essere un uccello, almeno per il momento! Mi piace ed entro facilmente in intimità con gli altri perché sono Capacità per loro, inconsapevole in questi momenti della distanza che ci separa, all’oscuro di essere “faccia a faccia” l’uno con l’altro, di essere una cosa a parte che li deve o dominare o escludere. Senza il bisogno di fare bella figura, mi rapporto con gli altri in modo semplice e aperto.

Poi l’infanzia cede il posto all’adolescenza, mi sto avviando verso l’età adulta ed è il momento in cui la necessità di stabilire la mia identità s’intensifica. “Chi sono io? Qual è il mio posto? Cosa voglio fare da grande?” In questo momento della mia vita la vera domanda non è “Chi sono io per me al Centro?” ma “Chi sono io per gli altri nel mondo?” In questa fase non voglio essere una “nullità”, una “non-entità”, voglio essere “qualcuno”, qualcuno speciale. Giustamente. La visione di me stesso al Centro là dove sono Nulla, Capacità, Silenzio, non è in primo piano adesso. In questa fase è importante riconoscere la mia identità distinta e obiettiva, e trovare il mio ruolo unico nel mondo.

Seconda fase: l’adulto (lo sguardo verso l’interno)

Da adulto, sono quasi sempre autocosciente: mi vedo come gli altri mi vedono. Anche se non sto coscientemente a pensare alla mia apparenza tutto il tempo, l’autocoscienza è la mia “impostazione di base”. Facendo il Gioco delle Facce, m’identifico automaticamente con la mia. Appena un’altra persona getta lo sguardo su di me, mi sento o sotto ispezione o in mostra, conscio della mia apparenza in un modo o nell’altro. Sono talmente convinto di come sono fatto che considero l’idea di non avere testa, di essere ovunque, di essere Capacità per gli altri, come pura follia. Reprimo il mio punto di vista. Quando mi guardo allo specchio non dubito di essere quella persona. Sono certo di essere “faccia a faccia” con gli altri, di essere nato e di dover morire, di essere unicamente umano piuttosto che un uccello, un treno, Dio. Insomma, m’identifico con la mia apparenza e ignoro il mio Centro. Tutti i miei rapporti e le mie relazioni si basano su quest’idea di me stesso. Mi sono rimpicciolito; non essendo più Capacità per tutto (prima fase), sono diventato solamente una cosa alle prese con tutte le altre cose (seconda fase).

Da un lato, questo mi permette di funzionare nel mondo degli adulti e ricavarne beneficio. Sono consapevole adesso del mio essere individuale e conscio dell’avventura della mia vita: sono un membro unico e autocosciente della società. (Non potrei esserne membro se non fossi autocosciente. Se fossi rimasto prigioniero della prima fase, avrei bisogno di essere ricoverato.)

Dall’altro lato, nel profondo del cuore, sento che c’è qualcosa che non va. Qualcosa che manca. La negazione e la repressione della mia spaziosità centrale fa ombra sulla mia vita. Benché in realtà non abbia perso tale spaziosità, credo di averlo fatto, senza sapere esattamente cosa ho perso. Da bebè mi piaceva essere il centro eterno e il padrone del mondo, mi piaceva essere ovunque, unito a tutto, anzi non conoscevo altro modo di essere. Adesso non sono che un lampo in un cosmo indifferente, un cosmo che mantiene la sua distanza. Non c’è da stupirsi che mi senta abbandonato ed escluso, irrilevante e ignorato, perduto e senza significato, arrabbiato e depresso… E non è sorprendente che passi il mio tempo provando a riacquisire la mia importanza e il mio significato negli unici modi che conosco, attraverso il potere, i soldi, la fama, l’amore, il sesso… Da unico proprietario del mondo, ora sono ridotto alla miseria. Ero tutto e adesso sono meno di un granello di polvere. Il mondo incantato e meraviglioso che conoscevo da piccolo è nascosto dietro a un velo. La mia spontaneità e il mio entusiasmo sono stati sostituiti dalla prudenza e dall’indifferenza; la mia intimità dalla distanza; l’eterno dall’impermanenza e dalla morte. Certo che mi sento imbrogliato e derubato; lo sono stato. Certo che in fondo in fondo ho paura; innumerevoli spade di Damocle sono sospese sopra la mia testa. Dappertutto cerco la pace che conoscevo da bambino innocente, la leggerezza, la gioia, la meraviglia, anche se le ricordo solo vagamente. Vago pure è il ricordo della mia apertura nei confronti degli altri, l’amore che provavo per tutto e per tutti, eppure li voglio ritrovare. Insomma, la perdita di Chi sono davvero condiziona tutta la mia vita.

Se non soffro è perché rimango giovane di spirito, più o meno consciamente in contatto con la mia spaziosità, con Chi sono davvero.

Fortunatamente, c’è un’altra fase.

Terza fase: Colui che Vede (integrare lo sguardo verso l’esterno e lo sguardo verso l’interno)

Un giorno vedo Chi sono davvero. Mi rendo conto che c’è una differenza fra quello che sono per gli altri e quello che sono per me stesso. Prendo sul serio ciò che vedo: che dal mio punto di vista, sono la Fonte (senza testa) e il Contenitore del mondo!

Nello stesso tempo, a differenza del bebè, sono consapevole della mia apparenza; mi riconosco ancora allo specchio! So che sono un essere individuale, parte della società, e che ho qualcosa di speciale offrire.

Quindi mi rendo conto di avere due lati: per gli altri (e per me stesso allo specchio o agli occhi altrui) sono una persona con una faccia, un “sé nella società”; per me stesso, sono Spazio: tutte le facce, tutti gli altri sono dentro di me. Questa consapevolezza mette insieme lo sguardo del bebè (verso l’esterno) e lo sguardo dell’adulto (verso l’interno).

Quando comincio a vivere nella consapevolezza di Chi sono davvero, a poco a poco la mia vita cambia profondamente. Lo stress causato dal vedermi solo da fuori, come una cosa vulnerabile, inizia a diminuire adesso che vedo che sono sempre e assolutamente salvo come Nulla e Tutto. Vedere che il mondo è dentro di me mi fa capire che sono infinitamente ricco, intimamente connesso a tutto, la fonte immortale di tutte le cose. Io che mi sentivo perduto, adesso mi sento sempre più a casa, ovunque io sia. Sperimentando il vivere consapevolmente Chi sono davvero, scopro la bontà e la saggezza infinita della mia Vera Natura.


La verità vi renderà liberi. Gesù

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